Si vede la fine del cantiere. Si vede la luce.
In particolare: ho personalmente e in solitaria scelto il pavimento. Il giusto colore, il giusto grado di sbirluccicchio, la giusta texture sotto i miei piedini, i giusti tempi di consegna, il giusto prezzo. Tempo netto? 20 minuti, fuga abbinata compresa. Dopo che l’Architetto mi ha trascinata da piastrellisti per mesi il sabato mattina tra urla e sbraiti: non sapete quanto gli rode. Manca il rivestimento, scelto ma non ordinato.
Finora avevo giusto deciso wc e bidet: il pavimento è una bella conquista!
E abbiamo (ho) ordinato la cucina: melanzana e bianco. Matt. Mi piace e arriva a metà luglio. Stiamo ancora valutando gli elettrodomestici: non costano molto meno acquistati non dal mobiliere… mi sa che non conviene.
Insomma il cantiere sta finendo: non vedo l’ora di entrare e di fare pulizie e di arredarla e di riempirla di gatti abbandonati. Sono veramente esaurita! Però il mio fisico regge bene: sono stanca, sì, ma temevo drammi e ricadute che al momento, nonostante l’assenza di terapie, non si sono viste [e tocchiamo ferro tutti assieme].
Ogni tanto ho periodi bui, tipo l’altro ieri che sono andata a parlare alla signora di due piani sopra per dirle “ciao signora di due piani sopra! ti dobbiamo fare un buco nel muro perché la mia caminella della caldaia è ostruita dietro il tuo muro e non ho intenzione di far saltare in aria il palazzo”. Non è stato carino né facile, ma nemmeno impossibile.
In quei momenti stilo l’elenco delle persone che inviterò all’inaugurazione: usavo lo stesso trucco in tesi per la festa di laurea. Ha funzionato allora e funziona ora.
Ancora mi manca quando l’Architetto mi diceva “non vedrai mai il cantiere! sei la committente: romperesti solo le palle”.
E io che ci avevo pure creduto.